Aveva solo una passione per il cibo e la capacità di stare a contatto con le persone.
Quando iniziò a occuparsi di food content, nemmeno si rese conto che quella potesse essere la sua strada professionale. Si godeva il presente senza pensare che stava costruendo qualcosa di importante. Solo negli anni successivi, quando quel progetto iniziato quasi per gioco cominciò a dargli da vivere, capì di aver imboccato una direzione che avrebbe cambiato la sua vita.
Questa storia rivela una verità spesso taciuta nell’imprenditoria digitale: molti founder non nascono con la vocazione dell’impresa, ma la scoprono lungo il percorso. E spesso proprio questa inconsapevolezza iniziale preserva quell’autenticità che diventerà il vero asset competitivo. Luca era quello che stava all’ultimo banco, che si divertiva senza fare grandi cose, che prendeva tutto come un gioco. E forse proprio per questo ha funzionato.
L’Errore che è diventato un marchio
Guardando indietro al percorso di Chef in Camicia, Luca ammette di aver commesso un errore fondamentale: non essersi applicato abbastanza nei primi anni. Trattava tutto come un gioco, probabilmente perché pensava davvero che lo fosse. Non si comportava da founder perché non aveva realizzato di esserlo.
Quando il progetto Chef in Camicia iniziò a prendere forma, tutti pensavano a fare ricette elaborate e complesse. Luca invece scelse la via più semplice: fare panini. La motivazione era pragmatica e quasi pigra – voleva stare poco in ufficio, voleva qualcosa di veloce da realizzare. Eppure proprio quei panini sono diventati il suo signature content, l’elemento distintivo che lo ha trasformato in Lello Panello, il re dei panini del web italiano.
I panini funzionavano meglio di tutti gli altri contenuti, non perché fossero parte di una strategia di content marketing sofisticata, ma perché erano genuini, diretti, autentici. Non c’era sovrastruttura, non c’era pretesa. C’era solo Luca che faceva panini perché voleva fare qualcosa di veloce.
Questa dinamica racconta qualcosa di profondo sull’innovazione digitale. Nel caos dell’algoritmo e nella competizione spietata per l’attenzione, ciò che emerge non è sempre il più studiato o il più elaborato. Spesso è ciò che è vero, ciò che nasce da una necessità reale piuttosto che da una strategia. I migliori contenuti nascono quando smetti di cercare di fare contenuti e inizi semplicemente a fare.
Copiare, adattare, innovare: la strategia dei contenuti
Quando Chef in Camicia passò dai video con sole mani ai contenuti frontali, Luca si scontrò con un problema serio: aveva una pessima memoria e odiava seguire gli script. Provare a raccontare qualcosa mentre cucinava, seguendo un copione, era un dramma. La soluzione arrivò dall’ibridazione: iniziò a raccontare film mentre cucinava, creando “Cucinema“, un format in cui riproduceva piatti visti nelle pellicole cinematografiche.
L’ispirazione venne da “Binging with Babish”, un format americano che fa esattamente la stessa cosa. Luca fu il primo in Italia a pensare di adattare quel concept, senza inventare niente di nuovo ma facendolo proprio, traducendolo nel contesto italiano. Questa ammissione di aver copiato e adattato è rara nel mondo dei creator, dove spesso prevale la retorica dell’originalità assoluta.
La verità è che l’innovazione raramente parte da zero. È più spesso una ricontestualizzazione, un adattamento culturale, una traduzione di un linguaggio esistente in un nuovo contesto. Steve Jobs non ha inventato il computer, il mouse o il touchscreen. Li ha combinati in modi nuovi, li ha reso accessibili, li ha tradotti in prodotti che la gente voleva usare. Allo stesso modo, Chef in Camicia non ha inventato i video di cucina, ma li ha tradotti in un linguaggio che funzionava per l’audience italiana.
Il contenuto che segnò una vera svolta fu il “Crispy McClello”, probabilmente il primo su YouTube Italia a cavalcare quel trend specifico. Non si trattava di essere i più bravi o i più creativi, ma semplicemente di essere più veloci, più attenti ai trend emergenti, più vecchi – nel senso di aver iniziato prima – degli altri.
Nel mondo dei contenuti digitali, il timing è tutto. Un buon contenuto al momento giusto batte sempre un contenuto perfetto al momento sbagliato. E Chef in Camicia ha imparato presto a surfare le onde invece di cercare di crearle da zero.
Dall’incudine alla leadership: diventare CEO dieci anni dalla fondazione
Quest’anno Chef in Camicia compie dieci anni, e per l’occasione Luca ha assunto formalmente il ruolo di amministratore delegato. La sensazione che descrive è quella di avere un’incudine che penzola sopra la testa, un macigno costante. È un lavoro che non sapeva fare, semplicemente perché non l’aveva mai fatto prima.
Ma ha scelto di farlo per amore della sua azienda, consapevole che Chef in Camicia, non essendo una multinazionale, poteva permettersi di avere una figura come lui che inizia un mestiere di gestione da inesperto. Ha visto il ruolo non solo come l’opportunità di gestire l’azienda, ma anche di imparare un mestiere in un contesto amico, in un posto che sente come casa.
Questa scelta di imparare “on the job” un ruolo così delicato riflette una realtà comune nelle startup digitali italiane: la scarsità di competenze manageriali specifiche per il settore dei contenuti. Le business school formano manager per industrie tradizionali, ma chi sa davvero gestire una media company nata dal digitale? Il percorso formativo ancora non esiste, bisogna inventarselo strada facendo.
Il concetto che emerge con più forza nella visione di leadership di Luca è quello del “pompiere”. Non si tratta di dare direttive dall’alto, di imporre visioni o strategie. Si tratta di smorzare, tranquillizzare, rendere i momenti complessi un po’ meno difficili. È una metafora efficace per la leadership nelle organizzazioni creative, dove il comando e controllo tradizionale non funziona.
Una giornata tipo di Luca oggi è estremamente frammentata e trasversale. Si muove tra cucina e ufficio, tra meeting interni e appuntamenti esterni. Fa trasferte di lavoro, appuntamenti commerciali, si occupa di relazioni esterne, va a eventi per incontrare persone. Deve affrontare grane, guardare numeri anche se ammette di non capirci un gran che. È una figura che lui stesso definisce molto trasversale, né troppo grande né troppo piccola per la dimensione attuale dell’azienda.
Ma c’è anche l’ownership, il concetto che ognuno deve fare le proprie cose. In un’azienda cresciuta organicamente da tre amici con una telecamera a quasi venti persone, stabilire confini chiari di responsabilità è essenziale per scalare efficacemente. Non si può più fare tutto insieme, serve struttura. Ma questa struttura deve convivere con la flessibilità e la trasversalità che hanno caratterizzato la fase iniziale.
Né CEO, né influencer: l’identità ibrida del founder digitale
Chi è davvero Luca Palomba oggi? Non si sente CEO nel senso tradizionale del termine. Non si sente nemmeno influencer, anche se passa molto tempo davanti alla telecamera. Si definisce brand ambassador della sua azienda, il volto che deve essere un po’ dappertutto e cercare di portare a casa il risultato in qualunque cosa faccia.
È il portabandiera dell’azienda, quello che tiene alta la bandiera anche quando la battaglia si fa difficile, quello che rappresenta all’esterno i valori e la visione del progetto. È una figura ibrida che sfida le categorizzazioni tradizionali, sempre più comune nell’economia digitale dove i confini tra ruoli si fanno sfumati.
Forse è più influencer che CEO, ma quello che conta davvero è essere in grado di incarnare quello che Chef in Camicia rappresenta. E cosa rappresenta Chef in Camicia? Se fosse un piatto, sarebbe una pasta al curry. Non la classica carbonara, non l’amatriciana, non un piatto della tradizione. Una pasta al curry, simbolo di ibridazione, rottura degli schemi, volontà di sperimentare oltre i confini del tradizionalismo gastronomico italiano.
La pasta al curry è anche il piatto che Luca preparava quando lavorava poco in Chef in Camicia, quando diceva di lavorare ma faceva finta. Un piatto da “ingover”, quello che ti fai anche a colazione dopo una serata di bevute per rimetterti al mondo. Un piatto che racconta sincerità, imperfezione, umanità.
Ma soprattutto, la pasta al curry racconta la missione di Chef in Camicia: si può inventare in cucina, tutti possono osare. In Italia c’è una cibofobia culturale per cui se non sei tradizionalista non sei nessuno, non puoi permetterti di sperimentare. Chef in Camicia vuole rompere questa barriera, dimostrare che la cucina può essere un campo di gioco aperto all’innovazione.
È qui che Chef in Camicia si posiziona non solo come media company ma come movimento culturale, come sfida al conservatorismo gastronomico, come invito democratico alla creatività. In un paese dove la tradizione culinaria è quasi una religione, questa è una scelta identitaria forte e divisiva.
La rivoluzione silenziosa dietro un portone milanese
Da una cucina milanese, dietro un portone anonimo, è partita una rivoluzione silenziosa nel modo di raccontare il food in Italia. Non una rivoluzione fatta di proclami e manifesti, ma di panini, pasta al curry, esperimenti e errori. Una rivoluzione fatta da tre amici che hanno trasformato un gioco in un’impresa, senza mai smettere di giocare.
Luca Palomba oggi è un brand ambassador che cucina, che corre tra meeting e fornelli, che porta l’incudine della gestione aziendale sulla testa ma continua a sorridere davanti alla telecamera. È il volto di una generazione di imprenditori digitali italiani che sta scrivendo le regole mentre gioca, che costruisce aziende mentre impara, che cambia il web una ricetta alla volta.
Chef in Camicia dimostra che in Italia è possibile costruire media company strutturate, sostenibili e di successo partendo da una passione e una telecamera. Ma dimostra anche che questo successo richiede capacità di evolversi, di ammettere errori, di imparare ruoli nuovi, di reinventarsi continuamente. Non c’è un manuale, non c’è una formula magica. C’è solo la volontà di fare, di sperimentare, di cadere e rialzarsi.
Dietro quel tendone rosso che ci aveva incuriosito all’inizio, c’è molto più di una cucina attrezzata e di set per le riprese. C’è la materializzazione di un’idea semplice ma potente: che il cibo non è solo cibo, ma un pretesto per connettere le persone. Che si può rompere le barriere del tradizionalismo senza perdere il rispetto per la tradizione. Che si può costruire un’azienda seria senza prendersi troppo sul serio.
E forse questa è la lezione più importante di tutte: nel mondo dell’imprenditoria digitale, dove tutti cercano di apparire perfetti e infallibili, la vulnerabilità e l’onestà sono il vero superpotere. Ammettere di non sapere, di aver sbagliato, di essere imperfetti non è debolezza. È la base per costruire qualcosa di autentico e duraturo.
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